COVID-19: in Italia si è trovato bene! (parte 1)

IN ESCLUSIVA

(Tempo di lettura: 09′:10″)

L’autore: Prof. Alessandro Capucci, originario di Faenza, professore ordinario di Malattie Cardiovascolari, per molti anni direttore della clinica di Cardiologia dell’Ospedale Le Torrette in Ancona, un’eccellenza a livello nazionale e internazionale nel trattamento delle patologie cardiovascolari. Dal 2008 al novembre 2019 Direttore della Scuola di Specialità in Malattie Cardiovascolari presso l’Università Politecnica delle Marche. E’ stato inoltre uno degli otto membri in Europa del Working Group on Arhythmias della società Europea di Cardiologia, nonché vice presidente dell’associazione italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione, autore dello studio “Aritmie cardiache, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, influenze del sistema neurovegetativo” e inoltre organizzatore di vari progetti internazionali e artefice di numerose pubblicazioni.

Ogni giorno assistiamo al bollettino della Protezione Civile che ci somministra il numero delle persone decedute a seguito di grave insufficienza respiratoria o stato di shock legato agli esiti dell’influenza da coronavirus; ogni giorno ci viene ripetuto di stare in casa e di lavarci le mani; ogni giorno ci viene ripetuta l’importanza dell’impiego delle mascherine e dell’amuchina, presidi da subito introvabili. I nostri medici, convertiti da differenti specializzazioni a terapeuti dei pazienti ricoverati per coronavirus sono inviati ”al fronte” senza alcuna protezione significativa.
Per almeno un mese, tempo dal quale siamo stati allertati come cittadini Italiani, si è ripetuto che non esistono cure efficaci (forse la vecchia colchicina? forse i farmaci per l’artrite reumatoide?). Poi è subentrata una certa rassegnazione sul fatto che morirebbero, all’inizio si è detto solamente, le persone anziane… che quindi tutto sommato hanno vissuto abbastanza e poi addirittura già ammalate per neoplasia o severa cardiopatia. A dire il vero qualche improvvido sanitario (se ne sono viste e sentite di tutte) ha lanciato lì che basterebbe essere ipertesi o avere la fibrillazione atriale per essere più predisposti ad ammalarsi di COVID-19. Naturalmente tutte parole non supportate da alcun dato scientifico. L’informazione dei mass media si è poi incentrata sul supporto lodevole delle misure di contenimento a domicilio della popolazione oppure sull’impiego delle mascherine (introvabili) o all’impiego dei tamponi come strumento diagnostico essenziale.
Nel frattempo gli Italiani muoiono e non solo gli anziani e l’unica cosa di cui ci si preoccupa è di fornire respiratori e letti di terapia intensiva per trattare lodevolmente le persone colpite dal coronavirus con una manifestazione clinica purtroppo già in fase avanzata. Ma si può e si poteva fare qualcosa di meglio allo scopo di limitare i decessi?
In questo articolo sono ad illustrare alcuni punti essenziali esclusivamente derivati da dati già esistenti nella letteratura scientifica (che citerò così che ognuno potrà verificare) condite dal buon senso clinico che da medico di lungo corso ho sempre applicato nella mia professione e sempre nell’interesse della vita.
Per partire con il piede giusto bisogna conoscere meglio il COVID-19 (N Engl J Med .org 2020 Areosol and surface stability of SAES-CoV-2 as compared with SAES-CoV-1. M.Cascella et al Features, Evolution and treatment Coronavirus StatPearls Publishing LCC, NCBI 8 marzo 2020).
Il virus di cui siamo affetti, tramandato dalla Cina è il coronavirus 2. Essendosi notoriamente sviluppato in Cina alcuni mesi prima che in Europa, esiste già esperienza precedente alla nostra riguardante le sue caratteristiche, la sua stabilità nell’ambiente e la sua facile trasmissibilità; tutte caratteristiche già ampiamente note all’inizio di febbraio 2020. L’articolo citato apparso sulla rivista N Engl J Med (ndr. una delle più importanti del mondo) mette in risalto come questo virus abbia un’elevata resistenza anche all’esterno e quindi possa essere assunto non solo attraverso le gocce di saliva (droplets) ma anche possibilmente attraverso la polvere ambiente, se in zona ricca di virus, o col contatto anche molte ore dopo che un portatore ha toccato la stessa superficie. E’ stato infatti verificato dagli studiosi che il virus può sopravvivere in quantità ancora elevate per essere infettante all’esterno anche 72 ore, soprattutto a contatto con la plastica od il cartone. Nell’aria attraverso le particelle di saliva può essere vitale per più di un’ora. Quindi uno dei primi punti da conoscere è che questo virus è molto stabile e resistente e quindi infettante sia per contatto che per aereosol diretto da persona a persona. Di qui la necessità di pulire e disinfettare gli ambienti pubblici, come strade, piazze, giardini etc, come abbiamo visto spesso eseguire nei filmati della Cina e Corea del Sud ma invece non abbiamo visto fare nelle nostre città.
La prevenzione richiede pertanto attenzione da parte dei singoli ma anche messa in atto da parte istituzionale di misure di disinfezione dei luoghi pubblici.
Il secondo punto è come si manifesta la malattia una volta che una persona sia stata colpita dal virus e quindi quali sono le possibilità esistenti di cura utile.
Il virus attacca soprattutto le vie respiratorie e può iniziare come raffreddore o banale influenza ma poi, se trova terreno favorevole alla sua riproduzione, oppure è entrato massivamente nell’individuo, si espande ai polmoni inizialmente con edemi essudativi ricchi di proteine, poi con congestione vascolare, formazioni di accumuli di sostanza fibrinoide con formazione di cellule giganti multi nucleiche e iperplasia dei pneumociti con conseguente ridotto scambio gassoso alveolare. Si è visto che questo processo colpisce prima le basi polmonari e poi anche gli apici. E’ quindi un’interazione fra la carica e potenza virale e le resistenze immunologiche del soggetto colpito. Si capisce subito che certamente i soggetti più defedati, quindi anche più anziani, possono essere colpiti maggiormente ma non necessariamente sono risparmiati i giovani, a differenza di ciò che continua ad essere sbandierato in TV da così detti esperti.
Quindi virus stabile nell’ambiente, resistente e che può colpire ad ogni età al di sopra dei 20 anni (apparentemente ad oggi risparmiati quelli sotto). Tutti però possono essere portatori sani e quindi trasmettere il virus a loro insaputa e questo è sicuramente il problema maggiore che ha portato allo sviluppo mondiale della pandemia. E qui si innesca il punto cruciale che riguarda la reale importanza dei tamponi.
E’ veramente utile il tampone per la diagnosi di malattia e deve essere effettuato a tutti? Su questo punto se ne sono sentite di tutte e di più. Inoltre in questi giorni sta succedendo che persone note non ammalate vengono sottoposte a tamponi “precauzionali” mentre parenti stretti di persone positive e che hanno contratto la malattie, in mancanza di febbre elevata, non vengono controllati. In Emilia Romagna a Bologna invece viene impiegato il “drive in” del tampone. Una situazione assurda che si commenta da sola. Ma quale sarebbe il giusto comportamento da seguire?
E’ vero che attraverso un tampone ben eseguito è possibile diagnosticare la presenza di infezione da coronavirus ma la prima cosa che non si deve confondere è che non vi è parallelismo fra la presenza dell’infezione e lo sviluppo della malattia. Il tampone può divenire positivo dopo una iniziale negatività oppure essere negativo anche in condizioni di patologia avanzata da coronavirus (Dasheng LI et al False-negative results of real time.. Korean J of Radiology 2020;21(4):505-508). Inoltre si tenga conto del naturale calo possibile di accuratezza nella risposta da parte dei laboratori, abituati ad analizzare pochi tamponi al giorno che si vedono arrivare decine di migliaia di tamponi.
Quindi i tamponi a tappeto non hanno senso, si consumano molte risorse e non servono per combattere questa pandemia; comunque ormai è troppo tardi per agire con questa soluzione su larga scala. Diverso sarebbe stato essere pronti ad applicarli a tutte le persone che rientravano in Italia dall’estero appena si è avuto conoscenza della epidemia in Cina (dicembre/gennaio) e non solo controllandoli negli aeroporti ma anche nelle stazioni dei treni e caselli autostradali. Allora si avrebbe avuto un impatto efficace, facendo scattare per i positivi una vera quarantena in luoghi approntati e controllati. Tutto ciò non è stato fatto ed ora quando i buoi sono totalmente scappati, si parla di allargare i tamponi. Sono da applicare in realtà solo in caso di sospetto non confermato di malattia e quindi in casi del tutto specifici. Bisogna partire dal presupposto che la maggior parte della popolazione potrebbe essere portatrice di coronavirus (si calcola il 70%) per cui al momento l’unica attenzione per non contrarre la malattia è non venire a contatto con i portatori possibili e quindi rimanere al proprio domicilio.
Ma è proprio vero che non esiste una terapia che potrebbe aiutare ad esempio a non sviluppare una malattia polmonare più avanzata? In realtà esistono soluzioni farmacologiche provate con una certa efficacia proprio in Cina e Giappone quale ad esempio il Favipiravir (Avigam), farmaco attivo sui virus a RNA, come il Covid-19 (Y Furuta et al Favipiravir (T-705), a broad spectrum ihibitor of viral RNA polymerase Proc Jpn Acad Ser B 93, 2017; 449). I dati già pubblicati sono favorevoli nel senso di una certa capacità di ridurre le conseguenze mortali della patologia. Certo è importante che sia somministrato nelle fasi iniziali e non a patologia polmonare già avanzata. Per almeno un mese nessuno ne ha parlato in Italia anche se il farmaco era già ampiamente noto. Solo ora, davanti ad una caterva di persone decedute e a qualche sollecitazione non proprio ufficiale, l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) si accorge della sua esistenza e il governatore Zaia, dietro sua richiesta, avrà l’opportunità di impiego nel Veneto. Da ieri vi è stato un comunicato AIFA di inizio sperimentazione di questo farmaco. Vi è stata in vero anche la proposta della ditta farmaceutica Roche, all’inizio del mese di marzo per distribuire gratuitamente il medicinale Tocilizumab, specifico per l’artrite reumatoide ed utile, anche se non miracoloso, nella terapia del COVID-19. Anche qui l’AIFA ha annunciato il 17 marzo l’autorizzazione allo studio. Come si vede vi sono speranze terapeutiche ma l’organizzazione preposta risponde con la nota lentezza burocratica che ritarda l’inizio del loro impiego mentre assistiamo a centinaia di persone che muoiono tutti i giorni, sole, in rianimazione senza alcun conforto familiare.
Un ultimo ma non trascurabile punto riguarda lo smaltimento dei rifiuti tossici (cioè camici, guanti, mascherine infette) appartenenti ad esempio al personale sanitario che è stato in contatto con gli ammalati. Anche questo punto è stato già affrontato e risolto in letteratura scientifica ma apparentemente non se ne parla nemmeno nella nostra nazione. Dovrebbe esistere un sistema organizzato per smaltire questo materiale infetto. Teniamo conto che i corpi dei deceduti con coronavirus vengono, almeno a quanto ci è detto in TV nel nord Italia, in maggior parte bruciati nei forni mentre, a nostra conoscenza, non vengono sigillati e opportunamente distrutti in ambienti protetti gli indumenti infetti. Dovrebbero essere bruciati in inceneritori costruiti in luoghi scelti ad hoc. Esistono dati derivati dall’esperienza cinese (Hao Yu et al Int J Environ Res Public Health 2020;17(5):1770). In alternativa il virus può diffondersi in tutto l’ambiente, fonti d’acqua comprese. Questo è un problema fondamentale per la protezione civile che mi pare, in Italia, venga taciuto.
Nello stesso articolo qui citato viene poi descritto come esistano modelli matematici già noti per potere prevedere lo sviluppo di un’ epidemia; pertanto una commissione di scienziati e non di politici sarebbe già oggi, o forse anche già da qualche settimana , in grado di prevedere i tempi di sviluppo di questa patologia da coronavirus. Forse i politici non sanno o non vogliono riconoscere che in occasione di eventi di questo genere ci vuole una reazione informata, rapida e omogenea su tutto il territorio attraverso un organismo preordinato e organizzato all’uopo per affrontare le situazioni di urgenza nazionale. Una commissione di persone capaci, con pertinenze acclarate dal loro CV, non politicizzate e che abbiano competenza ed anche possibilità di valutare la situazione esistente, sappiano organizzare un piano di azione e portarlo a termine saltando ogni ostacolo burocratico. Contemporaneamente questa commissione si deve fare carico di raccogliere dati in modo scientifico in base ai quali potere confermare poi o correggere la strategia iniziale.
In conclusione riteniamo che il COVID-19 abbia trovato un buon terreno di crescita in questa nazione. Non è stato stoppato quando lo poteva essere (dicembre/gennaio); una volta entrato non si è predisposto alcun piano di reazione unitario nazionale e le comuni difese dal contagio sono state poco reperibili (guanti, mascherine, disinfettanti etc.); non è stato fatto e non viene fatto nulla per pulire le nostre strade e luoghi pubblici e per smaltire i rifiuti infetti; non si è inserito alcun presidio terapeutico potenzialmente efficace, testato precedentemente in altre nazioni, nel nostro armamentario terapeutico; si sono perdute risorse economiche inutilmente nella diffusione in modo confuso e talvolta clientelare di inutili tamponi; si sono date informazioni frammentarie, contraddittorie e confuse alla popolazione anche attraverso persone improvvisate e poco preparate.
Certo stiamo andando verso l’estate, ed è possibile e speriamo probabile che per questo il virus perda potenza spontaneamente e pertanto che questa bella Nazione Italia, dove il COVID-19 si è trovato così bene, possa piano piano sua sponte liberarsi anche di lui. Lo speriamo tutti uniti, anche senza una commissione di esperti.

Prof. Alessandro Capucci  – Ordinario di Malattie Cardiovascolari 

EdP-mb 25 marzo 2020

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