E’ la rivincita del medico di campagna nell’epoca delle grandi tecnologie? Il caso Coronavirus

(Tempo di lettura:06′:15″)

L’autore: Alessandro Capucci, originario di Faenza, bolognese d’adozione, professore ordinario di malattie cardiovascolari, per molti anni direttore della Clinica di Cardiologia dell’Ospedale Le Torrette di Ancona, un’eccellenza a livello nazionale e internazionale nel trattamento delle patologie cardiovascolari, dal 2008 al novembre 2019 direttore della Scuola di Specialità in Malattie Cardiovascolari presso l’Università Politecnica delle Marche. E’ stato inoltre uno degli otto membri in Europa del Working Group on Arhythmias della società Europea di Cardiologia, nonché vice presidente dell’associazione italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione, autore dello studio “Aritmie cardiache, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, influenze del sistema neurovegetativo” e inoltre organizzatore di vari progetti internazionali e artefice di numerose pubblicazioni.

Il terzo mese di Coronavirus sta per essere compiuto ed è tempo per qualche considerazione dedotta dall’esperienza di questi tumultuosi e statici giorni. Dopo un’iniziale clamorosa sottovalutazione del problema da parte di virologi, dell’OMS, dell’Istituto Superiore di Sanità, degli immancabili politici, abbiamo assistito ad una serie di interviste televisive di virologi, di igienisti, di personalità di ogni tipo, compresi famosi giornalisti, che con piglio di gran conoscitori ci consigliavano sul da farsi e fondamentalmente ci invitavano a restare in casa, anche in caso di febbre, assumendo la Tachipirina, salvo chiamare recapiti specifici solo alla comparsa di seri sintomi.
Come è andata? Ventisettemila morti solo nel nostro paese, malgrado due mesi di restrizioni ai domiciliari e perdita di qualunque fatturato con profonda crisi economica, crollo del PIL nazionale e della nostra maggiore risorsa e cioè il turismo. Tutti a discutere sull’andamento possibile dell’epidemiologia, sulle curve di contagiosità, sulla tracciabilità dei positivi al Coronavirus, sull’indice di nuovi ammalati, sul numero dei guariti; questo nell’ottica di elaborare una strategia di ripresa graduale dell’attività, da parte dei cervelloni inseriti nel comitato tecnico scientifico del quale il nostro governo si è dotato prontamente e fin dall’inizio. Apparentemente, mettendo in gioco tutto il meglio dei nostri scienziati, alcuni richiamati anche dall’estero per l’occasione, si è arrivati a questa fase di impasse, d’incertezza medica e di disastro economico. Corre così spontanea una domanda: si sarebbe potuto fare meglio? Eventualmente come? Cosa è mancato?
Ritornando all’epoca dei miei padri e antenati, allora esisteva la figura del medico di campagna. Era un soggetto con un suo fascino, forse non elegante e salottiero ma dotato di spirito libero; aveva scelto la professione medica sul campo, a contatto con le malattie, guardando in faccia le persone ammalate e sofferenti e mettendosi in gioco personalmente, per riuscire a favorire una guarigione o nei casi più brutti era almeno in grado d’instaurare un proficuo rapporto consolatorio. Ma quale spirito guidava questo medico nella sua professione giornaliera? Oltre alle nozioni mediche acquisite dagli illustri colleghi in cattedra, certamente la semplicità del ragionamento, condito da un grande buon senso, imbevuto di pratica clinica acquisita sui pazienti e di una grande curiosità fonte di spinta costante alla ricerca della verità. Verità mai facile da trovare in assoluto, specialmente quando manca questa curiosità interiore rivolta al solo bene della persona paziente. Certo anche allora esistevano sapienti figure mediche nelle Istituzioni ed università che scrivevano trattati o presentavano lavori scientifici a conferenze, ma i medici di campagna per scelta e vocazione erano stati indirizzati alla professione medica del buon senso. Non che gli scienziati non l’avessero anch’essi, ma era diverso, sempre mancava quell’atteggiamento di umile apertura mentale che solo il rapporto diretto con chi ti chiede direttamente aiuto ti fa crescere dentro.
Ma perché scomodare la figura ormai obsoleta di un medico che non esiste più nella nostra realtà tecnologica, quando si sta parlando sempre più d’intelligenza artificiale, sempre più vicina a sostituire anche l’attuale figura di medico pur tecnicizzato? Potrebbe essere interessante pensare a come avrebbe affrontato l’epidemia del Coronavirus il medico di campagna, spirito libero e quindi sicuramente non condizionato da alcuna pressione politica, dotato di scarse risorse tecnologiche ma attento alle sue conoscenze di medicina e al suo grande buon senso.
In primis avrebbe cercato di acquisire informazioni sulle caratteristiche del nemico che andava a combattere: il Coronavirus.
A gennaio alcuni attributi del Coronavirus erano già stati descritti in riviste cinesi di medicina, proprio per avere già soggiornato a lungo da quelle parti prima di arrivare nel nostro paese. Era noto come questo virus fosse trasmissibile per via aerea ma anche stabile a contatto con i mezzi solidi, resistente all’aperto specie alle basse temperature; sensibile alle temperature più elevate e verosimilmente ad altre concentrazioni di O2 (l’ossido nitrico è un suo nemico). Quindi esistevano poche informazioni ma possibilmente utili per una strategia di reazione, assieme ad altre già desumibili nel corso dello stesso mese. Non conoscendosi la carica virale infettante atta a procurare la malattia si era però capito che lo stato infiammatorio procurato dal virus, una volta intaccato l’organismo, poteva favorire le complicanze maggiori di tipo polmonare e sistemico: la così detta sindrome da Antifosfolipidi. Osservazioni poi successive in febbraio ci avevano chiarito che la patologia polmonare non era a carico esclusivamente dell’interstizio, come inizialmente pensato, bensì dei vasi, tipo embolia o trombosi polmonare.
Il medico di campagna dopo essere venuto a conoscenza di queste poche nozioni, anche dai comuni mezzi di comunicazione (sempre rivolti a trasmettere notizie veritiere) ci avrebbe pensato un po’, poi avrebbe elaborato le seguenti strategie:
1) il virus si batte facendo attenzione alla trasmissione orale (droplets; mascherine), al contatto con superfici (guanti e lavaggio frequente mani) e con attenzione al particolato (disinfezione frequente di strade e luoghi pubblici ); inoltre bisognerà pensare allo smaltimento dei rifiuti speciali, per il materiale entrato a contatto con persone ammalate (materiale di ospedali etc.) per evitare inquinamento del virus dell’ambiente e dell’acqua;
2) per le sue caratteristiche, sarà più facile per il virus attecchire in ambienti a bassa ventilazione e alle temperature più rigide, per cui l’arrivo dell’estate potrà portare ad un calo spontaneo della sua virulenza e forse potremo tirare un sospiro di sollievo;
3) basandosi poi sulla memoria storica avrebbe pensato che le pandemie si combattono sul territorio. Grave errore quindi concentrare gli ammalati negli ospedali, condizionandone così il loro più ampio funzionamento;
4) avrebbe pensato anche che poiché questo virus procura all’uomo i maggiori danni a seguito dello sviluppo di uno stato infiammatorio sarebbe utile combatterlo fin da subito impedendone l’avanzata e lo sviluppo della temuta sindrome da Antifosfolipidi. Grazie alle sue conoscenze di terapia di stati cronici quali il lupus sistemico avrebbe pensato all’Idrossiclorochina, non alla Tachipirina. Avrebbe inoltre ritenuto non essendovi mezzi diagnostici probanti (non lo sono infatti né i tamponi, né tanto meno i test sierologici) di dovere applicare un criterio diagnostico pragmatico, considerando pertanto ogni influenza come malattia da coronavirus e bloccando l’infiammazione da subito a domicilio con l’impiego appunto della Idrossiclorochina ;
5) nel caso del complicarsi della malattia con problemi polmonari, il medico di campagna dopo attenta riflessione, avrebbe ritenuto il semplice sintomo dispnea quale allarme e guida verso la ospedalizzazione, onde trattare il paziente con gli anticoagulanti e solo in qualche caso anche con i ventilatori.
Sfruttando il senso pratico del medico di campagna il costo di questa epidemia sarebbe risultato ridotto in quanto la diagnosi di malattia da Coronavirus è essenzialmente clinica, senza test specifici, ma solo in base ai sintomi; la terapia nella maggior parte dei casi è domiciliare con farmaci già in commercio a basso costo e l’ospedalizzazione rara. Essendo poi la patologia contrastabile, stante la facile trasmissibilità sono utili le misure igieniche di comportamento, almeno per un certo tempo da stabilire (probabilmente di ridotta durata) ma non è necessario alcuno specifico blocco di movimento e di produttività. Naturalmente non spetta al medico di campagna ma agli scienziati monitorare l’andamento successivo dell’epidemia e consigliare eventuali nuove terapie.
Il vaccino è veramente indispensabile? Il buon senso risponde: prima andrebbe scoperto, poi testato in sicurezza negli uomini e a quel punto (vari mesi dopo) potremmo essere davanti a un altro virus. E’ probabile quindi che non serva, come è stato per Ebola o altre recenti patologie (aviaria, suina).
Il medico di campagna nella sua modestia avrebbe così risolto il problema Coronavirus rapidamente, a basso costo, senza ripercussioni negative sul PIL? No signori, oggi abbiamo fatto dei grandi progressi nella medicina e abbiamo ultraspecialisti ben collegati in tempo reale ai politici e sicuramente possiamo fare molto meglio.

Prof. Alessandro Capucci
Ordinario di Malattie Cardiovascolari

profacapucci@gmail.com



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